Non sono bravo a fare le recensioni da rivista, ne tanto meno da Webzine. Non sono capace. Punto. Quindi vi parlerò di Matt prendendo spunto da note biografiche scritte da chi ne sa più di me e ne metterò delle mie. Alla mia maniera. Scusatemi. Sticazzi direte voi. Ok. Sticazzi.

Matt Elliott non è normale. Questa è quanto. Questa è la premessa.

O meglio, la premessa è Bistol dove il nostro (per ora diciamo il mio) Matt muove le prime levette dei campionatori. La Bristol del Trip Hop. Dei Massive Attack. Lui è elettronico. Fa cose Trip Hop. Poi fa cose più soniche a nome Third Eye Foundation. Aumenta i bpm del Trip Hop a velocità da ritiro Parente (160-180). Drum and Bass / Jungle. L’allora futuro. Lui è li. L’album si chiama Ghost (1997).

Poi produce un’album degli Hood http://www.ondarock.it/rockedintorni/hood.htm

Insomma è uno che fa cose. Vede gente. Fa dischi. Sonici. Elettronici. Fa rumore. Poi melodie. Li è la sua storia. Da Ghost e dalla Drum and Bass Matt passa ad altro. Sempre elettronica. Ma ora c’è della melodia. Poca ma c’è. Nei successivi You Guys Kill Me (1998)Little Lost Soul (2000) Matt addomestica i suoni e li asserve ai suoi voleri compositivi. I rumori diventano suoni. Le urla diventano canti. Ma mi sto dilungando.

Questa era solo la premessa. Per capire chi era. Da DOVE veniva. Per capire COME è mutato. Da COSA è mutato.

Francia. Ad un certo punto dei primi anni 00 Matt lascia Bristol per la Francia. Lascia l’elettronica e abbraccia il folk. La musica tradizionale mittel europea. Chitarra, Piano. Oggetti fisici. Che fanno suoni se li sai toccare come si deve. Niente levette. Niente campioni. O almeno ci si prova. Matt inoltre deve aver ascoltato anche Yann Tiersen e Sylvian Chaveau (se non lo conoscete siete matti!!!)

Quindi da alla luce “The Mess we Made” (2003). Gia il titolo dice parecchie cose… Passare dalla jungle al folk non è facile. E in questo disco si vede perfettamente come Matt sia ancora legato alla componente elettronica, che fa capolino in tutti i brani. Strumenti classici (pianoforte, violino, …) condividono gli stessi spazi con elementi e campioni elettronici. Ma non è solo quello. Matt decostruisce i suoi brani. Li spoglia. Li rende nudi. Nudi e malinconici. Nudi e tristi.

Si, ok, è la classica struttura folk. Non c’è nulla di innovativo. Nessuna invenzione. Nessun colpo di genio. Ma è la sua sensibilità musicale e melodica che amo. La sua bravura nell’asservire note e melodie. Nell’intrecciare in una grande tela oscura i suoni che strumenti reali e campionati emettono. Li sta la sua bravura.

Inoltre Matt canta. O meglio. Matt si lamenta. E la sua è una voce fastidiosa, che disturba, che adoro. Questo è il disco consigliato di “ingresso nel mondo di Matt” da chi ha un background elettronico perchè ci sono richiami familiari. (Also Run, The Mess We Made, Let us Break).

Poi Matt evolve ancora. Decide di fare una trilogia di “songs”. La prima è “Drinking Songs” (2005). Qui il percorso di Matt ed il mio si intrecciano e si scontrano. Esce Drinking Songs, ne parlano bene su Ondarock e meglio ancora su SentireAscoltare. Lo ascolto e mi piaciucchia, ma non ero pronto al passaggio completo al folk rurale intrapreso con quest’album ed infatti mi innamoro dell’ultima traccia “The Maid we Messed” che altro non è che un mega remix dei suoni del precedente album. (noto che infatti anche a Manuel è piaciuta). Cosi mi perdo nel casino che ha fatto Matt (il precedente album. “The Mess We Made”).
Ma è solo questione di arrangiamenti. L’anima di questo disco è sempre quella. Cito:

Tetra, passionale e incredibilmente malinconica, la musica di Matt Elliott viaggia su lunghezze totalmente e volutamente diverse da quelle dell’attualità rock e si ciba di atmosfere e soluzioni ormai sempre più in disuso. Troppo diverso e rétro per piacere alla maggioranza degli ascoltatori indie, Elliott seguirà un destino analogo a quello dei suoi piccoli eroi dimenticati dal tempo e dalla storia; certo comunque, che se anche un solo cuore sarà conquistato dal suo timido e alcolico folk da bettola, il suo sforzo non sarà stato vano.

E io sono uno di quelli.

Il successivo Failing Song (2006) è una rilettura ancora + depressa e scarna del precedente lavoro. Qui il suono è davvero all’osso, non c’è sangue, non c’è carne. Troppo estremo anche per me che l’ho digerito solo di recente.

Infine l’ultima fatica, Howling Songs (2008) è il disco conclusivo della trilogia folk sulle disgrazie umane, anche qui le coordinate musicali sono sempre quelle. Anche in questo caso, il profilo musicale è “un obliquo folk dalle radici euro-mediterranee – tratto comune di entrambi gli album precedenti – e dalle urticanti incursioni elettriche, che sembrano voler esternare un senso di irrimediabile disillusione e sconfitta, traducendo secondo l’attuale sensibilità dell’artista le destrutturazioni degli esordi.” (ondarock)

Ma non ne ho mai abbastanza delle sue melodie.

Qui la monografia di SentireAscoltare

Qui quella di Ondarock


GiampaoloM

Ascolto Musica, vado a Concerti, Scatto foto. Vivo a Roma.

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